La storia di Assolombarda è un racconto di visione, impegno e trasformazione. Questo libro celebra oltre un secolo di vita dell’Associazione, un viaggio che ha accompagnato Milano, la Lombardia e l’Italia lungo i momenti più intensi e significativi dello sviluppo economico, sociale e culturale.
Attraverso le parole dei nostri presidenti e le riflessioni sulla città di Milano da parte di alcune delle menti più significative del nostro tempo, emergono i tratti distintivi di Assolombarda che ha saputo evolversi interpretando gli aspetti principali del cambiamento. Dall’inaugurazione del palazzo di via Pantano n. 9 firmato Gio Ponti, fino ai giorni nostri, l’Associazione si è raccontata attraverso azioni, eventi e una comunicazione capace di mettere in connessione imprese, istituzioni e comunità.
Come Direttore di Fondazione Assolombarda ho fortemente sostenuto la nascita di questo prodotto editoriale perché ripercorrere la storia dell’Associazione significa consolidare un’identità condivisa, un atto di consapevolezza che lega il passato alle azioni presenti e future. Perché la storia di Assolombarda è, prima di tutto, la storia di chi crede nella forza delle idee, nell’intraprendenza, nella responsabilità del mettersi in gioco e nel contributo che ognuno può offrire per costruire una società migliore, inclusiva e sostenibile.
Alessandro Scarabelli,
Direttore Generale Assolombarda
La storia di Assolombarda è la storia del nostro tempo. Un tempo fatto di piccoli e grandi avvenimenti. Piccole e grandi trasformazioni. Alle volte partite da molto lontano e arrivate fino a noi, nel nostro territorio. E altre volte partite proprio da noi e ora in giro per il mondo.
Tra le righe di questo libro troverete il “filo rosso” della nostra storia, che è la storia di questo territorio e, dunque, dell’Italia. Perché qui, come amiamo dire, ogni impresa è possibile. Perché sono proprio la passione e la tenacia delle donne e degli uomini d’impresa a innervare una parte essenziale del patrimonio di questo Paese, il suo capitale sociale: la vocazione a fare impresa, sempre e comunque, nonostante qualunque vincolo esterno.
Sono le nostre imprese, infatti, che producono ricchezza, alimentano in modo determinante i sistemi di welfare, generano inclusione e coesione sociale, presidiano i processi di innovazione, competitività e sostenibilità, partecipano a quelli di internazionalizzazione, contribuiscono alla cultura materiale e immateriale del Paese, costruiscono saperi politecnici, forgiano simboli, concorrono alla nostra proiezione nel mondo.
Tra le righe di quest’ultimo tratto di storia di Assolombarda, ci sono i fatti, i ricordi, le persone. Ma, più di tutto, c’è la porta per capire l’oggi, per scoprire nuovi orizzonti. Per quanto riguarda me, partiamo da un luogo e una data precisi.
Codogno, 20 febbraio 2020. Il virus che ha sconvolto le nostre vite e ha segnato la storia moderna ha colpito per primo, in Occidente, proprio uno dei nostri territori. Presto si è diffuso in tutta Italia, in Europa, nel mondo.
La mia storia da Presidente di Assolombarda è iniziata quando il mondo si stava trasformando. Il Covid-19 rappresenta l’inizio di una nuova era. C’è un “prima” e un “dopo” pandemia.
Tutti noi ricordiamo le parole che il Papa pronuncia il 27 marzo 2020 in una piazza San Pietro deserta. Quel «nessuno si salva da solo» che risuona in tutto il mondo è già il principio guida degli imprenditori e dell’Associazione: dal giorno zero ci si siamo messi a servizio del Paese condividendo protocolli di sicurezza, dando supporto giorno e notte su servizi, dispositivi medici, certificazioni, assistenza in materia import-export e per avviare progetti di ricerca scientifica contro il virus.
Le nostre imprese hanno compiuto investimenti straordinari sulla sicurezza e poi con le riconversioni industriali. Sono molto fiero di quanto fatto in quegli anni: Assolombarda ha ribadito la centralità del lavoro sul territorio per il bene della comunità.
In questo modo, ci siamo adoperati per garantire la tenuta economica dell’Italia e, in risposta al timore che potesse verificarsi una “macelleria sociale”, abbiamo dato un apporto determinante sul piano occupazionale. Abbiamo cercato di mettere in pratica la filosofia di vita di uno dei più grandi imprenditori del nostro territorio, Giorgio Squinzi, alla cui memoria ho voluto dedicare il nuovo auditorium di Assolombarda: «mai smettere di pedalare».
L’Italia, grazie al contribuito trainante della filiera completa di Milano, Monza e Brianza, Lodi e Pavia, ha reagito meglio delle altre grandi economie europee. Nel 2020 ci dicevano che l’export sarebbe calato, e invece, al contrario, è addirittura aumentato.
Ricordo bene la mia prima Assemblea Pubblica, all’Hangar dell’aeroporto di Linate, per segnare un ulteriore passo verso la ripartenza, in un luogo simbolo della connessione e dell’internazionalizzazione con il resto del mondo. Fu in quel momento che decisi di scegliere, per tutti gli anni a seguire, luoghi ogni volta pieni di prospettiva verso il futuro. Nel 2021, le ex Acciaierie Falck, perché era forte l’urgenza di rigenerazione, non solo economica, ma anche sociale, politica e urbana. Nel 2022, MIND – Milano Innovation District, quale simbolo della capacità di questo territorio di cambiare pelle: da raffineria fino agli Novanta, a centro nevralgico di Expo 2015, al suo attuale assetto, con una vera e propria città orientata all’innovazione.
In quegli stessi anni le nostre imprese stavano compiendo un “piccolo miracolo economico”, con una crescita maggiore di quella mondiale nel suo complesso, di quella dell’Euro-area, nonché della media dei Paesi avanzati.
L’elevata differenziazione delle imprese esportatrici e dei prodotti esportati, le doti di adattabilità anche nella fase di rimodellamento delle filiere globali, la bassa delocalizzazione, la rete di filiere corte per gli approvvigionamenti, incardinata nei distretti industriali che fanno di questo territorio e dell’Italia un esempio unico al mondo, ci posizionano al secondo posto tra le potenze industriali di un’Europa che è seconda manifattura al mondo, dopo la Cina.
Come Presidente prima negli anni della pandemia, poi in quelli della guerra Russia-Ucraina, dell’emergenza energetica, delle molte, troppe tensioni internazionali e geopolitiche, ho cercato di non perdere mai l’impegno che ho preso con gli imprenditori che hanno scelto me per guidare, per un “tratto di strada”, l’Associazione. Stare a fianco degli imprenditori, attraverso l’ascolto e il dialogo continuo, mantenere saldo e costante il legame, anzitutto umano, con centinaia e centinaia di loro, immaginare insieme il percorso di rafforzamento del nostro territorio, sono stati la mia priorità, il mio primo appagamento. La storia di Assolombarda è lo specchio di questa forza industriale. In questi anni ho cercato di far emergere questo nostro patrimonio.
Spesso mi definisco, e mi definiscono, un “incurabile ottimista”. Come potrei non esserlo dopo aver varcato le porte di moltissime delle imprese di questo territorio, dove ho imparato cose nuove, toccato con mano l’intelligenza e la passione di un tessuto industriale che ogni giorno, sempre più, sono orgoglioso di rappresentare? Ovunque sia andato, ovunque abbia parlato, ho sempre tenuto fermo questo punto, per me centrale: siamo un Paese solido, operoso e intraprendente, con una delle più straordinarie e competitive economie reali del pianeta, fatta di tanta buona industria e tanti straordinari imprenditori.
Rafforzare la percezione degli aspetti positivi dell’economia credo sia importante anche per costruire un’immagine cosmopolita più equilibrata presso i referenti istituzionali, gli attori politici nazionali ed esteri, gli investitori e il mondo della finanza, le agenzie di rating, i media e l’opinione pubblica internazionale. Anche per questo, negli ultimi tre anni, quando è diventato di nuovo possibile stare fisicamente insieme, ho voluto costruire un’operazione di “orgoglio industriale”: gli Assolombarda Awards, che per molti sono diventati gli “Ambrogini delle imprese” o addirittura gli “Oscar delle imprese”. Valorizziamo le aziende e i loro progetti d’avanguardia sui temi della digitalizzazione, sostenibilità, responsabilità e cultura d’impresa; celebriamo grandi donne e uomini d’azienda che hanno fatto e fanno la storia industriale del nostro territorio, del Paese e, naturalmente, di Assolombarda.
Ma in questi anni c’è un’altra consapevolezza che ho fatto mia, frutto del confronto con i miei colleghi e degli effetti concreti che hanno interessato il nostro tessuto industriale. L’Europa, Bruxelles: il primo e principale centro decisionale, di produzione di policy rilevanti per l’industria. Dal 2020 in poi, l’Unione Europea ha assunto una nuova centralità. Ha tracciato chiaramente la strada verso il futuro, prima con il NextGenerationEU, oggi con la sfida del completamento del progetto di integrazione europea.
La nostra responsabilità è esserci. Partecipare al processo decisionale fin dall’inizio, con costanza e determinazione. Avanzare proposte e richieste “sedendoci al tavolo” con la consapevolezza e l’autorevolezza di chi siamo veramente. È la nostra gravitas che ci dà credibilità e forza, anche negoziale!
In particolare, durante le mie due ultime relazioni all’Assemblea Generale, nel 2023 e nel 2024, ho sempre difeso e promosso gli interessi delle nostre imprese, i valori della cultura dell’impresa, e ho valorizzato il patrimonio di eccellenza del nostro sistema industriale all’interno di quello che ritengo essere ormai il nostro perimetro minimo di azione e ragionamento: l’Unione Europea. L’ho fatto in due luoghi dove si respira futuro a ogni boccata: il Camozzi Advanced Manufacturing Center, che ha inventato la più grande stampante 3D al mondo, e l’Università Bocconi di Milano, tempio della formazione, della ricerca, della riflessione economica internazionale.
Sono state prima la pandemia e poi la guerra che ha sconvolto l’Europa a farci capire che nessun Paese europeo può essere sovrano da solo. Abbiamo chiesto, allora, che nascesse una nuova strategia industriale europea, pragmatica e di visione, per affrontare le nuove e gigantesche sfide che abbiamo davanti: dall’indebolimento dell’industria europea per gli effetti combinati delle misure di stimolo all’industria di Stati Uniti e Cina e dei provvedimenti ideologici ambientali della Commissione Europea 2019-2024, alla crescente competizione sul piano geopolitico e ai suoi effetti in termini di incertezza e instabilità sui mercati di energia, materie prime, componenti e semilavorati, così come sui mercati di sbocco; dall’accelerazione della crisi climatica e della rivoluzione tecnologica, fino all’acuirsi delle diseguaglianze sociali e dell’impoverimento della classe media con impatti capaci di mettere a rischio la tenuta stessa delle democrazie liberali e dei sistemi di capitalismo di mercato, tanto più in un contesto di demografia avversa.
Abbiamo parlato tanto di Europa pur essendo noi un “pezzo” del Paese. Ma il punto è proprio questo: Assolombarda con i suoi territori e i suoi imprenditori incarna storicamente il significato di “glocalismo”. Sono proprio le imprese raccolte in Assolombarda a essere “leader globali specializzati”: hanno le radici che si sono irrobustite grazie alla linfa speciale del nostro territorio e contemporaneamente operano con successo a livello internazionale in segmenti altamente specializzati e innovativi. Questa peculiarità ci fornisce la lente per guardare vicino e allo stesso tempo lontano. Nelle idee, nei confini.
Sto scrivendo queste righe a pochi mesi dalla fine del mio mandato da Presidente di Assolombarda, iniziato completando l’importante fusione con Pavia. Pensando alle parole più ricorrenti del mio percorso, oltre a quelle che vi ho già raccontato fin qui, ce ne è una che mi sta a cuore, più di tutte: le persone. Niente è possibile senza le persone, le loro competenze, la loro passione, le loro convinzioni. Senza i confronti, alle volte gli scontri, le tante condivisioni. Senza metterle nelle condizioni di poter dare il meglio di sé, di contribuire con il loro lavoro e la loro energia alla vita dell’impresa e dell’Associazione. Al progresso del territorio e del Paese.
Se mi guardo indietro credo davvero che il lascito all’Associazione che più di tutti sento mio e che guarda dritto al futuro sia il progetto di apertura del primo asilo nido del sistema Confindustria. Gio Ponti, oltre 60 anni fa, volle costruire la “casa degli imprenditori”: usò proprio queste parole. E la storia di Assolombarda si intreccia indissolubilmente anche con la storia del suo palazzo e, oggi, dei suoi spazi rinnovati, aperti alla città.
Per me, per tutti noi, Assolombarda è anche questo: non solo il motore dell’economia nazionale ma uno strumento cruciale per far fronte alle nuove sfide sociali che il mondo ci presenta.
Milano locomotiva dell’economia italiana. “Capitale morale”, anche se spesso discussa e criticata. Baricentro dei flussi di persone, idee e capitali tra l’Europa e il Mediterraneo. La ricchezza e il riformismo delle pubbliche amministrazioni e delle imprese migliori. Il Duomo e Sant’Ambrogio, la Scala e il Grattacielo Pirelli. La Grande Brera e gli spazi dell’arte contemporanea. L’industria e le università. La finanza e la cultura in tutte le sue forme, fra teatro e musica, libri e Tv, fotografia e, perché no? anche il cinema. Lo sport. The place to be, insomma, per ricordare una famosa definizione del «New York Times» di qualche anno fa.
E ancora, la forza delle radici e “l’avvenire della memoria”. Il Salone Internazionale dell’arredamento e la moda. Il turismo dello shopping in Montenapoleone, la strada commerciale più cara del mondo. E le tensioni sociali nelle periferie ma anche in quartieri un tempo operai e popolari e adesso affollati da persone che faticano ad arrivare alla fine del mese (380 mila, le persone in stato di bisogno che si rivolgono alla Caritas Ambrosiana). Le scelte high tech di MIND (Milano Innovation District, negli ampi spazi in cui sorgevano i padiglioni dell’Expo 2015), di MADE, il Competence Center del Politecnico, e di tutti quei laboratori di ricerca che innervano le migliori Life Sciences europee. Le donne rettrici in gran parte delle sue università (Statale, Bicocca, Politecnico, Cattolica e IULM) e le tante altre ai vertici di imprese e istituzioni economiche, evidenza di un protagonismo femminile che migliora profondamente le buone attitudini della società civile. E il caro vita che rende difficile trovare casa e fare la spesa a quei ceti medi che di Milano sono la parte essenziale del capitale sociale e dello spirito di comunità. I primi posti nelle classifiche del «Sole 24 Ore» sul benessere e la qualità della vita ma anche il disagio crescente. L’intraprendenza, insomma. E però pure la crisi.
Non più «Milano da bere» come nei frenetici anni Ottanta, anche se restano le tentazioni effimere delle “mille luci”. Ma men che meno Gotham City, senza però sottovalutare i rischi e l’allarme per la microcriminalità e il fondato bisogno di sicurezza.
C’è, infatti, una solida cultura della legalità che ancora oggi si ispira all’“eroe borghese” Giorgio Ambrosoli, fatto assassinare dal banchiere della mafia Michele Sindona, nel luglio 1979, come punizione per non aver permesso la devastazione dei centri finanziari tra Milano e New York. E proprio Assolombarda, con i buoni rapporti storici e attuali con il Palazzo di Giustizia, ne è tra i protagonisti. Anche se pesa, sulla buona economia, l’opportunismo dei soldi facili che contagia aree “grigie” del mondo degli affari, prive di scrupoli nello strusciarsi con i boss e i fiancheggiatori di ’ndrangheta, Cosa nostra e camorra.
Milano paradigma delle contraddizioni? Certo. Perché “contiene moltitudini”, per parafrasare un grande poeta americano, Walt Whitman.
Fatte tutte le pur controverse somme politiche ed economiche, resta il fatto che Milano è «l’unica vera cittàdestinazione d’Italia, per il lavoro, per investire, per studiare», secondo l’acuto giudizio di Mario Cucinella, architetto attento alle sfide della modernità. La storia di Assolombarda e le testimonianze dei suoi ultimi presidenti, pubblicate in queste pagine, di tutti questi aspetti offrono indicazioni esemplari. Il contribuito fondamentale al PIL, il prodotto interno lordo italiano costruito con lo sguardo rivolto all’Europa e al mondo. E una sofisticata sensibilità sociale rivelata pure dalla diffusione di buone pratiche di welfare aziendale. Una strategia da protagonista responsabile. Una politica ispirata da un forte senso di comunità. Insieme, il titolo di questo libro, è la parola di sintesi che ne riassume i valori.
Raccontare Milano, insomma, la “Milano grande”, la “città infinita” che si espande oltre i tradizionali confini amministrativi e si intreccia con altre città e borghi, aree industriali e contadi, significa dare conto delle molteplicità. Mettere in scena, cioè, una rappresentazione polifonica d’una metropoli che, nel corso della storia, ha saputo trovare un punto di incontro tra attori sociali diversi, comporre tensioni, costruire mediazioni (meglio ancora: compromessi, saggia parola) tra gli spiriti dinamici dell’intraprendenza e le vocazioni alla solidarietà. Usare dunque gli strumenti stilistici del “ma anche”, del “sì, però”. E scrivere una “sinfonia sociale” che faccia leva su quel prefisso greco così preziosa, syn, insieme, appunto. Insistendo su una cultura diffusa di comunità, valorizzando così quell’altra particella, stavolta latina, del cum, che anche in questo caso vuol dire “insieme”, come in “competitività” e in “comunità”. L’economia milanese ha sempre avuto una robusta valenza sociale.
La letteratura su Milano, d’altronde, è quanto mai ricca di riferimenti che vanno proprio in questa direzione. Impresa, lavoro, cittadinanza, inclusione. Idee in movimento. E capacità di “fare”, con la consapevolezza di dover “fare bene” e anche di “fare del bene”. Lo rivela un riferimento essenziale, tra i tanti possibili: quell’editto del 1018 firmato dal vescovo Ariberto d’Intimiano: «Chi sa lavorare venga a Milano. E chi viene a Milano è un uomo libero». Lavoro, dunque, come dignità personale e come cardine di cittadinanza, già nel tempo del Medioevo socialmente bloccato. E libertà come responsabilità di essere parte attiva di un processo di crescita economica, di sviluppo della città. «Milanesi si diventa» sarebbe stato, anni dopo, il “credo” volontarista di centinaia di migliaia di persone, arrivate a Milano da ogni parte d’Italia per cercare migliori condizioni di vita e di lavoro. Fare impresa e fare parte di un’impresa ne erano chiavi fondamentali. Per “essere all’altezza” degli anni di un “incanto” tra progresso e benessere, modernità e creatività. Ecco i cardini del boom economico, tanto sorprendente da essere chiamato “miracolo”. E dell’attitudine all’innovazione, nel senso più ampio del termine.
Un processo, naturalmente, carico di complessità, fatiche, conflitti, dimensioni taglienti e dolorose. Tra la durezza dei tentativi di integrazione (leggere La vita agra di Luciano Bianciardi e guardare Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti per averne significative testimonianze). E la luminosità del successo: Milano e i territori connessi alla metropoli, con i redditi più alti d’Italia e una buona condizione di qualità della vita (Monza e la Brianza sono quarte, nella classifica 2024 del «Sole 24 Ore» di cui si è appena detto, subito dopo il podio di Bergamo, Trento e Bolzano, con un balzo in avanti di ben cinque punti rispetto all’anno precedente).
È necessario, dunque, capire meglio quali siano gli aspetti più evidenti e le radici profonde delle evoluzioni economiche e sociali che riguardano la metropoli (magari parlando anche di “involuzioni”) e che indicazioni trarre da una serie di fenomeni che chiamano in causa, oltre che la politica e la pubblica amministrazione, la società civile, le forze economiche e la cultura.
«Le città, come i sogni, sono costruite di desideri e di paure, anche se il filo del loro discorso è segreto, le prospettive ingannevoli, e ogni cosa ne nasconde un’altra», scriveva Italo Calvino nel 1972, più di mezzo secolo fa, mettendo in pagina, in un dialogo immaginario tra Marco Polo e il Kublai Khan, undici serie di “città invisibili” e ragionando di memoria, desideri, segni, scambi, nomi, occhi e, ancora, di spazi urbani “sottili”, “continui”, “nascosti” e di tanto altro. Era un poema d’amore per quei luoghi in cui già allora e oramai sempre più intensamente s’addensa una composita umanità e in cui si fanno i conti con la nostra difficile e controversa modernità.
Come succede in tutte le storie d’amore, Calvino metteva in luce aspettative, illusioni, felicità luminose e taglienti dolori di tradimento e d’abbandono. E però, come in ogni gioco dell’intelligenza e della volontà, lasciava intravvedere voglia di capire e bisogno d’intervenire. Su più piani. La ragione. E i sentimenti. Perché, ricordando Blaise Pascal, il cuore ha ragioni che la ragione non conosce. Indagare, ricercare, esplorare, dunque. Ancora Calvino: «Di una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda».
Che domande facciamo oggi a Milano? D’essere pur sempre fedele, pur nel cuore di radicali, impetuose trasformazioni, alla capacità di tenere insieme intraprendenza personale e valori civili e sociali, produttività e inclusione, competitività economica e solidarietà. L’attenzione ai soldi. E lo sguardo sinceramente compassionevole. La ricchezza e la misura, l’eleganza, il rigore. Il successo. E la buona cultura aperta e creativa. Una miscela speciale di capitalismo e riformismo, progetti privati e interessi generali. Uno speciale “capitale sociale”. La “città che sale” e che include, appunto.
Milano, insomma, fa da paradigma di respiro nazionale ed europeo per indicare come si possa declinare in modo efficace la sintesi tra democrazia, mercato e welfare. E di come convivano, in una pur faticosa sinergia, mano pubblica e imprese private, produzione e cultura critica, creazione di valore economico e spazio crescente per i valori. L’ossessione del lusso. E la generosità caritatevole che ha radici ben salde nella chiesa ambrosiana ma non manca di una robusta anima laica.
Leggere la geografia aiuta a capire. Milano è saldamente insediata nel cuore della pianura padana, priva di difese naturali e di mura. Sta all’incrocio delle grandi strade dal Nord dell’Europa al Sud del Mediterraneo, baricentrica tra i grandi porti di Genova a ovest e Trieste e Venezia a est. Ha una forma tondeggiante, accogliente, senza spigoli acuti e anche urbanisticamente inclusiva (le sue porte sono caselli del dazio, strutture degli scambi, cioè). E la sua espansione, negli anni, con i nuovi quartieri, segue lo stesso andamento circolare dei Navigli originali. Città concentrica, facile, circolare. Come le idee che si muovono, i soldi che girano, le persone che vanno e vengono. Le città vitali non sono strutturalmente armoniche. Contrastate e conflittuali, semmai. Ma quella circolarità, come idea primitiva di senso, rimane. Ancora oggi, sotto gli occhi del mondo, con occhi milanesi che hanno il piacere del mondo. «La mia Milano mi ha dato una libertà che non si cancella», sostiene Emilio Isgrò, uno dei più creativi artisti contemporanei.
La storia di Assolombarda, nel corso di più di un secolo, mostra alcune costanti caratteristiche di fondo. Una concezione aperta delle relazioni economiche e industriali, con la consapevolezza d’essere all’interno dei circuiti della competizione di respiro europeo e internazionale. Un dinamismo che porta la città a essere pronta a recepire le spinte più innovative, sia imprenditoriali che tecnologiche, culturali, organizzative. E una chiara idea del mercato come spazio competitivo ben organizzato e dunque più o meno efficacemente regolato. C’è, insomma, un solido e ben radicato orgoglio industriale. E uno spirito sociale in sintonia con il cambiamento dei tempi.
Internazionali, soprattutto tedeschi e svizzeri, sono i capitali che nella seconda metà dell’Ottocento arrivano per la Banca Commerciale, il principale motore finanziario dello sviluppo industriale. Internazionale, d’impronta francese, la cultura che ispira Eugenio Torelli Viollier, ideatore e direttore del «Corriere della Sera», prima di cedere il passo alla lunga e sapiente guida di Luigi Albertini. Internazionali i riferimenti del Politecnico fondato da Giuseppe Colombo: studi in quell’ottima università che già allora era Pavia e poi un’acuta sensibilità per le idee scientifiche e imprenditoriali che vengono da Francia, Germania, Belgio e Regno Unito, pioniere della diffusione dell’energia elettrica e dunque della presenza Edison in città, maestro e finanziatore di allievi intraprendenti (Giovanni Battista Pirelli, che dalla Francia porta per primo a Milano, nel 1872, la lavorazione del caucciù, diffondendo la modernissima industria della gomma).
Internazionale, infine, l’Esposizione universale del 1906 che dà solidamente a Milano e ai territori collegati il primato del dinamismo d’impresa. E internazionali, oggi, le rassegne fieristiche, che dalla Fiera Campionaria degli anni Cinquanta (la mostra orgogliosa dell’innovazione che stimola il boom economico) si sono evolute sino a raggiungere primati in molti settori espositivi. Il Salone del Mobile, con la Design Week d’aprile, è il miglior punto di riferimento mondiale delle evoluzioni delle tecniche e del gusto legato ai fenomeni complessi dell’abitare: architettura e stili di vita, cultura del progetto e del prodotto, linguaggi tradizionali d’ispirazione artigiana ed evoluzioni dell’economia digitale, con gli innesti contemporanei dell’intelligenza artificiale. Un primato italiano che dagli anni Cinquanta si condensa a Milano e nella Brianza del distretto dell’arredamento e della metalmeccanica collegata a una filiera così strategica.
C’è, insomma, già all’inizio del Novecento, un dinamismo fatto di scambi e relazioni, oltre che di specializzazione produttiva nei settori dell’elettrotecnica, dell’acciaio, dell’energia e della chimica, che si affiancano a quelli tradizionali del tessile e dell’agroalimentare.
Proprio nel corso del Novecento, gli ambienti di Assolombarda, organizzazione molto autorevole anche nel contesto di Confindustria (cui fornirà parecchie figure di vertice e di primo piano) mostrano alcune caratteristiche di fondo, che determinano il particolare paradigma di sviluppo della “Milano grande” e metropolitana. L’industria è articolata in parecchi settori e non c’è una presenza dominante, egemone (diversamente da Torino, company town dell’auto, a forte impronta Fiat). E l’industria stessa, cardine della crescita, nel tessuto economico metropolitano si confronta con altre culture d’impresa, la finanza e il commercio, i servizi e l’editoria giornalistica e libraria, l’università e la scienza. Una polifonia, appunto. Un intreccio di interessi e valori, di poteri e idee attente alla scoperta e alla valorizzazione di ciò che cambia. Metropoli di tradizione, con alcuni riti che si ripetono, nella vita civile e sociale (l’anticipazione del Natale con le celebrazioni di sant’Ambrogio e la “prima” della Scala). E, contemporaneamente, metropoli di metamorfosi.
La cultura milanese è, appunto, “politecnica”, sintesi originale di saperi umanistici e conoscenze scientifiche. Il senso della bellezza si accompagna all’intelligenza delle nuove tecnologie. La consapevolezza del ruolo della storia si confronta con una spiccata tendenza a fare i conti con le avanguardie: ne fanno fede i musei e i centri d’arte, anche quelli di più recente costituzione, come il Museo del Novecento, la Grande Brera a Palazzo Citterio e le Gallerie d’Italia, il Mudec (Museo delle Culture), il Pirelli HangarBicocca e la Fondazione Prada. E resta sempre viva la lezione umanistica di Leon Battista Alberti e soprattutto di Leonardo da Vinci, uomo di molteplice ingegno: le sue mille e più tavole del Codice Atlantico, custodite nella Biblioteca Ambrosiana, mostrano appunto la bellezza della tecnica, la fantasia delle ardite costruzioni, una vera e propria immaginazione meccanica per quelle macchine che solo dopo molti secoli vedremo volare.
«Il Politecnico» si chiamava la rivista di Carlo Cattaneo, figura fondamentale della cultura politica, economica e tecnica della Milano dell’Ottocento, interprete critica della lezione dell’Illuminismo e del buon governo dei Verri e di Beccaria e Confalonieri. «Il Politecnico» era il nome della testata che, nel settembre del 1945, era stata fondata da Elio Vittorini, un siciliano molto milanese, per fare i conti critici con l’avvio dell’impetuosa trasformazione dell’industria e dei rapporti sociali fin dall’immediato dopoguerra. Politecnica, anche, l’ispirazione d’un’università d’eccellenza che oggi vanta primati formativi internazionali. Politecnica, come abbiamo detto, la cultura delle imprese che, radicate a Milano, stanno nel cuore dei mercati multinazionali: il loro “umanesimo industriale” fa da punto di riferimento per la più solida competitività del made in Italy.
Di tante e tali tensioni la storia di Assolombarda che leggerete nelle pagine seguenti offre riferimenti di grande interesse, nel corso delle relazioni tra mondo economico e istituzioni pubbliche. Un tessuto ricco di intrecci e sfumature di colore, in cui è evidente il ruolo di primo piano svolto dalle imprese e dalla loro organizzazione, con una penetrante incisività sul mondo sociale del territorio, ma anche con una solida influenza sugli scenari nazionale e internazionale.
L’industria milanese e dei territori collegati, infatti, è in prima fila nel tempo della ricostruzione, subito dopo la fine della guerra e la Liberazione dal nazifascismo. Vive con intraprendenza la stagione degli investimenti delle risorse arrivate con il Piano Marshall. E coglie con intelligenza le opportunità offerte dalla nascita delle prime istituzioni comuni europee e dall’apertura di un nuovo, grande mercato. Intraprendenza, velocità, flessibilità, inclinazione solida alla qualità dei prodotti e alla risposta alle esigenze dei mercati sono fattori di successo. Il basso costo del lavoro e l’ampia disponibilità di mano d’opera sono altri elementi competitivi determinanti (comincia, proprio nei primi anni Cinquanta, la grande emigrazione verso il “triangolo industriale” Milano-Torino-Genova da parte di centinaia di migliaia di persone dal Mezzogiorno e dalle aree povere del NordEst). Si pongono le condizioni del boom economico di cui abbiamo già parlato, con una crescita media annua del PIL del 5,9% nella stagione 1951-1963, sino al picco del 1961, con l’8,3%.
Gli investimenti pubblici nell’industria di base, nell’energia (con un ruolo fondamentale dell’ENI di Enrico Mattei) e nelle infrastrutture (a cominciare dall’Autostrada del Sole, da Milano a Napoli, con la posa della prima pietra nel 1956 e l’inaugurazione nel 1964) sono motori di sviluppo determinanti. L’impresa privata si muove velocemente: la motorizzazione di massa, con il protagonismo della Fiat e della Pirelli, della Vespa Piaggio e della Lambretta Innocenti, cambia abitudini di movimento, di lavoro e di vita. Gli elettrodomestici (con le fabbriche radicate in Brianza e nell’hinterland di Milano) modificano le abitudini casalinghe. La plastica Montedison ed ENI, sulla base delle ricerche di Giulio Natta (premio Nobel per la chimica nel 1963, dopo le ricerche nei laboratori milanesi di Pirelli e Montecatini), immette sul mercato oggetti belli, utili, colorati, di lunga durata. L’industria alimentare, con i grandi marchi popolari nei negozi e nei supermercati, grazie anche alla pubblicità nei “Caroselli” in Tv (Motta e Alemagna, Star e Galbani ecc.) e quelle dell’abbigliamento e dell’arredamento connotano un’impetuosa trasformazione di consumi e costumi.
La Rinascente in piazza Duomo e i grandi magazzini Standa, a Milano e in tante altre città italiane, ne sono strategici strumento di rappresentazione. L’Italia diventa un grande paese industriale, conosce un buon livello di benessere diffuso, si muove con disinvoltura nelle pieghe d’una complessa modernità. E la Fiera Campionaria di Milano, negli anni Sessanta e Settanta, è la vetrina della modernità.
I rapporti tra governi (di centro e poi dal 1963 di centrosinistra, comunque tutti a guida DC) e le rappresentanze di impresa sono dialoganti. “Autonomia” e “competenza” economica da fare valere, sono le parole ricorrenti nei discorsi dei presidenti di Assolombarda, durante le assemblee dell’associazione, accanto ai temi del costo del lavoro in crescita e del peso del fisco e della burocrazia (questioni ancora oggi aperte e in certi casi aggravate).
Piace poco, ai vertici di Assolombarda, la nazionalizzazione dell’energia elettrica, nei primi anni Sessanta, con la nascita dell’ENEL (gli indennizzi pagati dallo Stato agli azionisti privati non si traducono purtroppo in equivalenti investimenti privati in altri settori industriali). Si soffre per il crescente peso delle rivendicazioni sindacali per i salari, gli orari e le condizioni di lavoro. Si avverte una maggiore concorrenza sul nuovo Mercato comune europeo. E pesano, anche sulla competitività delle imprese e sull’evoluzione del tessuto sociale, la lentezza e l’inadeguatezza delle riforme che i governi faticano ad avviare, per cercare di tenere il passo con le impetuose, radicali trasformazioni sociali e civili. I servizi pubblici (la sanità, la scuola, i trasporti, la casa, la giustizia ecc.) e la macchina burocratica sono via via sempre meno all’altezza delle esigenze di un moderno paese industriale.
Il boom si sgonfia. Il 1964 è un anno di recessione e di difficoltà della lira. Poi ci si riprende, ma lentamente. E ci si avvia verso la fine del decennio tra il maturare di tensioni e contestazioni: le proteste del movimento studentesco, partite nel 19671968 per la riforma della scuola e poi cresciute con una più radicale connotazione antiautoritaria, e le proteste operaie del 1969, legate al rinnovo dei contratti, a cominciare da quello dei metalmeccanici. È l’inizio di una stagione dura e cupa, i cosiddetti “anni di piombo”. Con il terrorismo nero, di matrice neofascista, e la strategia delle bombe (dall’attentato a piazza Fontana, a Milano, il 12 dicembre 1969, a piazza della Loggia a Brescia, per continuare con le esplosioni sui treni). E con il terrorismo delle Brigate Rosse e degli altri gruppi dell’estrema sinistra “rivoluzionaria”, che culmina nel rapimento e poi nell’assassinio del leader della DC Aldo Moro, nella primavera del 1978.
Tramonta l’ipotesi di un’ambiziosa riforma del sistema politico italiano grazie a un’intesa tra DC e PCI (“convergenze parallele” e “compromesso storico” sono espressioni ricorrenti per raccontare quel processo) e scompare dal discorso pubblico un lucido monito di Moro: «Questo paese non si salverà, la stagione dei diritti e delle libertà si rivelerà effimera, se non nascerà un nuovo senso del dovere».
È un lungo tempo terribile. In cui alla violenza politica si aggiungono gli effetti della crisi petrolifera del 1973 (si impennano i prezzi dell’energia, con sconvolgimenti di tutti i meccanismi di produzione industriale europei e con conseguenze particolarmente negative sull’Italia), la crescita dell’inflazione, l’aumento delle tensioni sui posti di lavoro. Le relazioni annuali dei presidenti di Assolombarda ne danno ampio conto, con esplicite manifestazioni di preoccupazione: l’industria italiana è sempre meno competitiva, investire e intraprendere comportano rischi che è sempre più difficile assumersi.
La presidenza di Gianni Agnelli in Confindustria nel 1975 e il patto con il Segretario della CGIL Luciano Lama sul “punto unico di contingenza” per cercare di rallentare l’inseguimento tra salari e inflazione e raffreddare le tensioni sociali e il costo del lavoro, e poi il Rapporto Pirelli sulla riforma e la modernizzazione di Confindustria sono tentativi generosi di rendere più incisivo e positivo il ruolo degli imprenditori nel riequilibrio economico e sociale dell’Italia. Ma, nonostante tutto, la tensione resta acuta.
Il vento cambia con l’inizio degli anni Ottanta. Il terrorismo “rosso” entra in crisi, duramente colpito anche dalle iniziative delle forze dell’ordine (con un ruolo chiave dei nuclei specializzati comandati dal Generale dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa) e politicamente privo di sbocchi. Il terrorismo “nero” insanguina nuovamente il Paese il 2 agosto del 1980 alla stazione di Bologna (85 morti). Le tensioni sociali vanno comunque scemando.
A livello internazionale è già il tempo del neoliberismo, con il successo della scuola economica dei “Chicago Boys”, il cui maestro, Milton Friedman, padre del “monetarismo”, ha vinto nel 1976 il Nobel per l’economia, mettendo in un angolo il lungo predominio dei seguaci del pensiero di John Maynard Keynes. A Washington arriva alla Casa Bianca Ronald Reagan. A Londra comincia l’epoca delle privatizzazioni e del predominio della cultura del mercato libero, sotto la spinta del governo di Margaret Thatcher. E in Italia la “marcia dei quarantamila” guidati dai quadri della Fiat per sbloccare gli stabilimenti dagli scioperi operai, nell’autunno del 1980, apre una nuova stagione delle relazioni industriali: finisce il predominio sindacale (anche quello dei comitati di base e dei gruppi autonomi), si ritorna al lavoro organizzato e governato dai vertici imprenditoriali e manageriali. E il ciclo economico riparte. La Fiat Uno, che un’efficace pubblicità costruita con i disegni ironici di Giorgio Forattini definisce “comodosa”, “sciccosa” e “risparmiosa”, è l’auto emblema della ripresa.
Di «una diffusa voglia di capitalismo» parla Assolombarda, nell’Assemblea del 1986. L’industria s’è ristrutturata, dopo la crisi degli anni Settanta. Sono nate migliaia di piccole imprese, anche in provincia, lungo l’asse che dalla pedemontana lombarda va verso il Nord-Est e scende seguendo la dorsale adriatica: un dinamismo che fa sperare in una sorta di “nuovo miracolo” italiano.
Mediobanca, sotto la guida di Enrico Cuccia, continua a determinare le sorti del “salotto buono” del capitalismo familiare. I settimanali internazionali dedicano le copertine ai capitani d’impresa (Gianni Agnelli, Carlo De Benedetti, Raul Gardini e Silvio Berlusconi). È il trionfo degli stilisti e degli yuppie, della Tv commerciale e della pubblicità, di «panino e listino» (l’espressione coniata da Giuseppe Turani, il più brillante giornalista economico dell’epoca, per indicare i milanesi che in pausa pranzo si accalcano davanti agli schermi dei terminali di Borsa, nelle vetrine delle banche, per seguire l’andamento dei titoli di piazza Affari) e del lusso di Montenapoleone. È la «Milano da bere» (estendendo, purtroppo in negativo, la brillantezza di uno slogan pubblicitario di Marco Mignani, ottimo creativo). E di un’impetuosa ripresa dell’economia e dei consumi. Peccato però che esploda anche il debito pubblico, che segnerà tutti gli anni successivi, compromettendo il futuro delle nuove generazioni.
A segnare il corso dei tempi nuovi, ecco un evento internazionale che matura da tempo e segnerà gli anni a venire: nel novembre 1989 crolla il Muro di Berlino e, poco dopo, implode l’impero sovietico. Il comunismo di Mosca tramonta. Vincono la liberaldemocrazia, il mercato, l’Occidente. E Francis Fukujama, politologo illustre, scrive La fine della storia. Ma è davvero così?
L’economia è ciclica. L’euforia borsistica si smorza. I nodi politici si aggrovigliano. Anche il clamoroso fenomeno della moda rivela le sue fragilità (Sotto il vestito niente è il titolo di copertina di un’inchiesta del «Mondo» alla fine degli anni Ottanta, con un disegno di Pietro Bestetti). E nel 1992, a un’Italia che arranca in una controversa modernità, arriva un conto da pagare davvero pesante.
In febbraio scoppia Tangentopoli, efficace sigla giornalistica per sintetizzare le clamorose indagini giudiziarie che sono avviate dalla Procura della Repubblica di Milano e provocano seguiti ed emulazioni in parecchie altre città, per fare chiarezza sull’intreccio perverso tra politica e affari, pubbliche amministrazioni e imprese. Emerge un sistema di corruzione diffusa, per ottenere appalti e forniture, battere la concorrenza nelle gare dello Stato e degli enti locali, avere in tempi rapidi e a condizioni di favore autorizzazioni e licenze. Un sistema marcio, malato. Ma anche una tassa occulta e illecita imposta alle imprese costrette a pagare per poter sopravvivere. Difficile, in molti casi, separare in modo chiaro le responsabilità tra corrotto e corruttore, distinguere tra le esigenze di finanziamento dell’attività politica e dei partiti (comunque al di là delle norme) e l’avidità personale di singoli politici e amministratori.
Milano è l’epicentro del fenomeno. Sull’antico orgoglio d’essere “capitale morale” del Paese scende un’ombra pesante. Lo spirito d’intraprendenza ne viene umiliato: la corruzione e la piega criminale degli affari sono l’esatto contrario di una buona cultura del mercato e della concorrenza. Ma è tutta l’Italia a essere messa sottosopra dalle inchieste giudiziarie e dai processi. Crolla il tradizionale sistema dei partiti, tramonta la Prima Repubblica. E per un paio d’anni sulla politica s’addensa, anche strumentalmente e moralisticamente, la condanna dell’opinione pubblica.
Con i drammatici attentati mafiosi di maggio e poi di luglio a Palermo, le stragi in cui muoiono i due coraggiosi magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e le persone delle loro scorte, lo Stato viene pesantemente aggredito dai boss di Cosa Nostra, in cerca di rimonta dopo le pesanti condanne al maxiprocesso di Palermo, confermate e rese definitive dalla Corte di Cassazione (le bombe mafiose dell’estate del 1993 in corso Palestro a Milano, a Roma e a Firenze saranno la continuazione di quella strategia stragista). Il Parlamento, già pesantemente segnato dagli effetti di Tangentopoli, decide di affidarsi alla guida di un politico DC di lungo corso e solida fama morale, Oscar Luigi Scalfaro, eletto, con una larga maggioranza, Presidente della Repubblica.
C’è una terza bufera che s’intravvede all’orizzonte. Tra la fine d’agosto e i primi di settembre, un’imponente manovra speculativa internazionale si abbatte sulla sterlina e soprattutto sulla lira. Un terremoto finanziario, che aggrava la destabilizzazione del Paese. La Banca d’Italia, guidata da Carlo Azeglio Ciampi, fa fronte all’attacco, bruciando una parte consistente delle riserve in oro. E il governo, presieduto da Giuliano Amato, fa fronte come può all’emergenza. Se ne esce, a fatica. Ma è a tutti chiara la debolezza di fondo italiana, per un sistema politico in crisi strutturale, una presenza devastante della criminalità organizzata e una pesantezza oramai intollerabile del debito pubblico, che rende fragilissima la nostra valuta.
Sono necessarie riforme, politiche e finanziarie. Va moralizzata la vita pubblica. E rafforzata l’economia.
Gli anni seguenti, dal 1993 in poi, vedono un’Italia in movimento. Il sistema politico, con novità nel sistema elettorale, va verso un assetto bipolare: nel 1994, le elezioni vengono vinte dallo schieramento di centro-destra, sotto la guida di un imprenditore milanese tra i più brillanti e innovatori, Silvio Berlusconi, protagonista del mondo della Tv commerciale. Nel 1996, vince invece lo schieramento di centro-sinistra, guidato da Romano Prodi, ex democristiano, già Presidente dell’IRI, che coalizza un ampio fronte di cattolici ed esponenti della sinistra, a cominciare dai postcomunisti.
L’economia si rimette in movimento. Milano, con le aree industriali che fanno riferimento ad Assolombarda, si rialza, dopo la batosta di Tangentopoli. E l’orizzonte verso cui puntare è chiaro: una più compiuta integrazione europea, un passo avanti verso la nascita della moneta unica, l’euro. Il trattato di Maastricht, firmato nel 1992, indica la strada della convergenza delle economie, con indicatori comuni legati alla crescita del PIL e degli scambi, ai limiti al deficit e al debito pubblico, al consolidamento delle condizioni di concorrenza.
Risanamento, liberalizzazioni e privatizzazioni, dunque. Nell’arco di un paio d’anni arrivano sul mercato quote rilevanti delle banche sino ad allora quasi totalmente pubbliche, a cominciare dai due colossi milanesi, la Banca Commerciale e il Credito Italiano (finisce l’epoca del credito in mani pubbliche e con forti condizionamenti politici, in quella che proprio Giuliano Amato aveva definito «una foresta pietrificata», con conseguenze negative per le imprese e per un impiego virtuoso dell’abbondante risparmio privato). E in Borsa si collocano i titoli, oltre che delle società creditizie, anche delle aziende pubbliche come le società ex IRI, l’ENI ecc. Si allarga la platea dell’offerta di mercato, i risparmiatori e gli operatori finanziari, anche internazionali, hanno davanti una possibilità ampia di investimenti. La Borsa, in piazza Affari, è finalmente una struttura finanziaria di alto livello e ambizioso respiro strategico.
La seconda metà degli anni Novanta è quanto mai dinamica. Assolombarda, nel 1996, vara il Manifesto dell’imprenditore milanese, anche per dare un orizzonte di senso alle piccole e medie imprese che fioriscono sul territorio e, più in generale, nelle aree che stringono i loro rapporti con Milano: Monza e la Brianza, innanzitutto, ma poi pure Lodi, Pavia, il Nord lombardo di Como, Varese e Lecco e l’Ovest di Bergamo, Brescia, Mantova e Cremona.
Le cronache economiche e finanziarie, le inchieste e i puntuali commenti del «Sole 24 Ore» danno conto di una straordinaria capacità diffusa di innovazione e di crescita. E il quotidiano, di proprietà di Confindustria ma avvertito da tutti gli ambienti economici come un “organo del mercato”, già in crescita da tempo, raggiunge un alto livello di diffusione, superando le 400 mila copie al giorno di vendita e qualificandosi come il terzo quotidiano italiano, dopo il «Corriere della Sera» e «la Repubblica».
L’euro è introdotto il 1° gennaio del 1999, come moneta “invisibile”, adottata solo a fini contabili e per i pagamenti elettronici. Le monete e le banconote entrano in circolazione il 1° gennaio del 2002, in dodici paesi UE (la platea poi si allargherà). L’Europa ha un’unica valuta, l’integrazione ha fatto un fondamentale passo avanti. Per le nostre imprese, già inclini all’export e agli investimenti internazionali, comincia una stagione di straordinaria vivacità.
La diffusione di Internet e dell’ICT (Information and Communication Technology) e l’avanzamento delle relazioni internazionali accentuano i processi di globalizzazione. I mercati sono più aperti. Le assemblee di Assolombarda raccontano una situazione di cambiamento, movimento, trasformazione. E anche se l’orizzonte internazionale mostra momenti carichi di tensioni drammatiche, a cominciare dal terribile attentato terroristico alle Twin Towers di New York (e ad alcuni edifici pubblici di Washington) l’11 settembre del 2001, il clima generale, tutto sommato, è ispirato da una positiva condizione di fiducia.
Lo scorrere degli anni rivelerà altre crepe, altri disagi, altre carenze politiche ed economiche, della UE, dell’Italia e degli organismi internazionali. Ma, guardando adesso, a distanza, quel passaggio di secolo e di millennio («Stiamo trasecolando», scriverà agli amici un intellettuale acuto e ironico come Enzo Sellerio), possiamo pur dire che l’economia reale italiana e la sua “capitale” Milano mostrano una particolare capacità di cogliere il senso dei tempi nuovi e di tradurli in prodotti e servizi innovando, investendo, guardando ai mercati migliori: la UE come grande mercato interno, il resto del mondo come palcoscenico in cui conquistare quote nelle nicchie a maggior valore aggiunto. La crisi finanziaria internazionale del 2008 è un inciampo. Ma proprio perché rivela gli eccessi della rapacità e della precarietà della “economia di carta” e della speculazione sul debito, finisce per avere – con evidente eterogenesi dei fini – un effetto positivo. Si rilancia, infatti, il valore dell’economia reale. Per l’industria italiana è una strategia positiva, stimolante.
«Milano vicina all’Europa, Milano che banche, che cambi…» canta Lucio Dalla, che milanese non è ma sa cogliere, con intelligenza artistica, l’anima di fondo, aperta e produttiva, della città.
L’Expo del 2015, dal titolo Nutrire il pianeta, energie per la vita, è un passaggio fondamentale. Con espositori da 137 paesi e 22,2 milioni di visitatori, mostra al mondo quanto forte sia la vocazione internazionale della metropoli e quanto siano stretti i suoi legami con tutto il resto dell’Italia e con le aree forti dell’Europa e del mondo.
D’altra parte, è proprio questo lo spazio economico e sociale che vede la Grande Milano, “città infinita”, rafforzare il suo insediamento al centro della pianura padana, nel cuore del rettangolo luminoso ben visibile dalle immagini dei satelliti, che parte da Torino, attraversa la Lombardia industriale e va verso il Nord-Est delle piccole e medie imprese dinamiche, scende in direzione dell’Emilia Romagna della Motor Valley e delle multinazionali tascabili, e guarda al Mediterraneo. La “regione A1/A4”, per usare l’immaginifica sigla delle autostrade che la percorrono.
La metropoli vive il momento intenso di una nuova urbanistica, con lo sviluppo delle aree di Porta Nuova e di CityLife, e di una nuova architettura, con i grattacieli e i progetti degli architetti famosi, César Pelli e Stefano Boeri, Arata Isozaki, Daniel Libeskind e Zaha Hadid, Renzo Piano e Mario Cucinella, che cambiano i “segni” della città. Un nuovo skyline si impone nell’immaginario pubblico.
Guardando i numeri, l’area di riferimento di Assolombarda, tra Milano, Monza e Brianza, Lodi e Pavia, vale il 13% del PIL nazionale e il 13% dell’export, è sede di 5.509 multinazionali estere (il 36% di quelle presenti in Italia), ha un PIL pro capite di 51.702 euro (rispetto ai 36 mila euro del PIL pro capite medio italiano). Metropoli di primati. E di problemi da affrontare (ne abbiamo parlato nella prima parte di questo racconto metropolitano).
La città, le sue forze economiche, sociali e culturali, proprio per queste caratteristiche, hanno una responsabilità: fare da punto di riferimento per lo sviluppo europeo del sistema Paese. «Far volare Milano per far volare l’Italia» è l’indicazione strategica di Assolombarda durante la presidenza di Gianfelice Rocca, dal 2013 al 2017. Un programma ancora d’attualità. Una carta da giocare, grazie alla sintesi originale tra imprese industriali, finanza, università, ricerca scientifica, cultura, informazione, motori di sviluppo sostenibile particolarmente adatti alla stagione della “economia della conoscenza” che stiamo vivendo.
Il cardine sta nella valorizzazione dell’industria e della manifattura di qualità, di cui Assolombarda esprime una sintesi esemplare, grazie alla presenza, nei suoi territori e in quelli delle filiere collegate, di tutti i principali settori produttivi (meccatronica e meccanica, robotica, automotive, chimica e farmaceutica, gomma e plastica, cantieristica e aerospazio, oltre ai tradizionali comparti dell’agroindustria, dell’arredamento e dell’abbigliamento). Milano, ovvero l’orgoglio industriale. E una diffusa cultura della produttività e dell’innovazione. Leva di sviluppo sostenibile, ambientale e sociale. Da usare in chiave europea. Per una UE più coesa, dinamica, competitiva (sono i temi ricorrenti nelle relazioni alle Assemblee degli ultimi due Presidenti, Carlo Bonomi e Alessandro Spada). Cardine su cui fare forza anche per ribadire la centralità del ruolo dell’industria.
Per raggiungere e consolidare questo obiettivo, un passaggio essenziale è cercare di superare la “dissonanza cognitiva” degli italiani che ancora sottovalutano il nostro peso industriale (come rivela l’annuale Monitor sul lavoro Mol Community Research & Analysis per Federmeccanica) e dare dunque all’Italia un ruolo di primo piano per il futuro industriale dell’UE. Serve dunque anche affiancare al “saper fare” tradizionale l’attitudine al “far sapere” e raccontare, soprattutto alle nuove generazioni, l’importanza del lavoro industriale, della fabbrica high tech innervata da servizi tecnologici, dei laboratori di scienza e ricerca al servizio della qualità e della competitività.
La strada da seguire, adesso, è indicata proprio dal tema scelto per la “Settimana della Cultura d’Impresa” 2024, organizzata da Confindustria e Museimpresa, per parlare di Intelligenza Artificiale, arte e cultura per il rilancio dell’impresa. Un tema forte, netto: Mani che pensano. Le mani e cioè la centralità della manifattura, dell’impresa che sa fare «cose belle che piacciono al mondo», per ripetere l’efficace sintesi di Carlo Maria Cipolla (storico dell’economia di rilievo internazionale, nato a Pavia). E, accanto alla sapienza d’origine artigiana che nutre anche la più sofisticata neofabbrica, ecco “il pensiero” e cioè la conoscenza, la ricerca, la sperimentazione originale di nuovi e migliori paradigmi produttivi, economici e sociali. Indispensabili in tempi di così radicali mutazioni tecnologiche, di sconvolgenti transizioni digitali e ambientali. Dense di rischi e di opportunità di cambiamento positivo.
Fabbriche aperte, dunque. E dialoganti. Tra gli impegni storici di Assolombarda, anche attraverso Museimpresa (di cui è fondatrice, insieme a Confindustria), c’è il raccontare come e quanto le industrie siano attori produttivi ma anche sociali e culturali. Luoghi fisici e mentali dove il passato e il futuro s’incontrano, la memoria fa da cardine dell’innovazione, la competitività si lega all’inclusione sociale. E il valore economico si raggiunge e si mantiene grazie proprio all’attenzione alla cosiddetta “morale del tornio”, ai valori etici e sociali, ai diritti e ai legittimi interessi degli stakeholder. Una cultura radicata nella storia di ogni impresa che ne avverta l’essenzialità. E un impegno per le scelte sulla sostenibilità, sulla qualità e la sicurezza del lavoro e sul benessere delle persone. Con un’attenzione crescente contro tutte le discriminazioni, a cominciare da quelle di genere, le violenze, le alterazioni dei valori civili di una comunità.
Servono, naturalmente, anche scelte politiche sul primato della politica industriale e delle capacità produttive. Impegni culturali (fare diventare la cultura d’impresa cardine della conoscenza dell’importanza delle culture materiali: l’esperienza di Pavia “Capitale della Cultura d’Impresa” per il 2023 ne è testimonianza). Attività educative sull’importanza del lavoro. E sfide per i soggetti della cultura e della comunicazione, per andare al di là dei vecchi stereotipi sulla fabbrica fordista “brutta, sporca e cattiva”.
Sfide essenziali. Anche per evitare che la mancata conoscenza dell’Italia industriale alimenti quelle disattenzioni, quelle false percezioni della realtà che aggraverebbero i rischi di declino economico e dunque sociale e civile del nostro Paese.
Rieccoci, lungo questo percorso, al ruolo e alle responsabilità di Milano, metropoli aperta. Che ha bisogno di ritrovare la sintesi virtuosa tra l’intraprendenza e lo spirito civile dei pensieri e dei progetti condivisi, che anima una comunità. Sapere bene di essere urbs e cioè luogo denso di strutture, strade e piazze, mercati e teatri, palazzi e uffici, edifici di imprese e università in cui si muovono flussi di persone, di city users, ma anche di idee e capitali. E contemporaneamente non smarrire mai la consapevolezza della civitas e della polis, una rete densa di valori, diritti e doveri, relazioni “politiche” di cittadinanza. Milano città coesa, capace di fare tesoro delle diversità valorizzandole come elementi cardine di sviluppo comune.
Ecco ancora Dalla: «Milano tra i milioni e il respiro di un polmone solo». La metropoli ne ha sempre, finora, dimostrato la capacità. E, anche se è sempre più difficile, deve continuare a farlo. All’altezza delle nuove sfide economiche e sociali.
Milano e i suoi territori vanno pensati, progettati e governati come smart city, in grado di fare convivere le nuove tecnologie con la difesa e la valorizzazione dell’ambiente naturale, l’high tech con i quartieri degli alberi e dei giardini, secondo il giudizio di Carlo Ratti, che troverete nelle prossime pagine.
Milano, ancora, come spazio di intensa spiritualità, secondo le indicazioni del cardinale Gianfranco Ravasi.
Milano come territorio in cui la ricerca scientifica sa nutrirsi anche di bellezza, per usare la sintesi umanistica di Amalia Ercoli Finzi.
Ecco, è necessaria proprio la poesia per finire di raccontare, adesso, Milano. Come questa, di Umberto Saba: «Fra le tue pietre e le tue nebbie / faccio villeggiatura / Mi riposo in piazza del Duomo / Invece di stelle / ogni sera si accendono parole».